(di MARIA ROSA TOMASELLO)
La risposta è arrivata martedì sera, ed è stata purtroppo quella attesa: tampone positivo. Per Nicola Cattaneo, 43 anni, infermiere all’ospedale di Merate, è stata una serata amara: “La verità è che stiamo cadendo come birilli. Mia moglie Veronica, che lavora al pronto soccorso, aveva cominciato a manifestare sintomi importanti lunedì scorso e si era isolata in un’altra casa, lontana da me e dai nostri tre figli, che hanno 7, 12 e 14 anni. La cosa più dura per me è stata dir loro della mamma. Anche io ho la tosse, una sintomatologia blanda per fortuna, e per disposizione del medico di base sono da alcuni giorni in isolamento preventivo a casa coi ragazzi”. Il suo racconto è quello di una esistenza che l’emergenza ha spinto al limite, com’è accaduto a migliaia di suoi colleghi: “I miei bambini non li abbraccio più. Nelle ultime tre settimane hanno vissuto ognuno nella propria stanza. Noi genitori siamo entrati solo per portargli i pasti o per le cose indispensabili e sempre a debita distanza. Al nostro rientro dal lavoro – racconta - loro dovevano restare chiusi dentro le camere, noi ci spogliavamo per andare subito a fare una doccia bollente, poi bisognava arieggiare la casa per mezz’ora, e poi finalmente potevamo vederli. Per fortuna per i grandi ci sono le lezioni telematiche la mattina, il pomeriggio due calci al pallone in giardino, ma non so quanto potranno reggere in questa situazione. E’ questa la cosa più drammatica per noi operatori. Io ho paura ogni volta che vado al lavoro: è un mio dovere, e io lo sento fino in fondo. Ma so che dovrò tornare a casa dai miei figli, e la paura c’è: quella di contagiare chi ami. Non vedo i miei genitori e i miei fratelli da 50 giorni. So di colleghi che si sono ammalati entrambi, e hanno dovuto lasciare a casa i figli, ma erano maggiorenni. Ma se dopo mia moglie mi ammalassi anch’io, come faremmo?”.
Nelle strutture sanitarie al collasso, il contagio si diffonde senza risparmio tra chi è impegnato in prima linea nella guerra al virus: nella Asst di Lecco sarebbero circa 120 i medici e gli infermieri contagiati su un totale di .2.629 in tutta Italia. Il personale sanitario, secondo uno studio della Fondazione Gimbe, rappresenta l'8,3 per cento dei casi complessivi, il doppio della media cinese. Una situazione che ha spinto il sindacato Nursing up a presentare numerosi esposti nei territori e a inviare
una lettera di diffida al governo e ai presidenti di tutte le Regioni per chiedere il rispetto delle norme della sicurezza sul lavoro, stigmatizzando “lo scellerato articolo 7 del decreto 14 del presidente del consiglio Conte, che cancella la quarantena per il personale asintomatico entrato in contatto con soggetti a rischio”.
“La situazione è gravissima. Turni massacranti, ritmi insostenibili, riposi saltati, ferie e congedi sono stati sospesi come previsto dal decreto”. Ma questo – sottolinea Cattaneo, dirigente di Nursing up per la Asst di Lecco- non è rilevante rispetto all’emergenza di una pandemia che tra Lecco e Merate conta finora 350 contagi confermati e 67 morti. “Quello che è più rilevante è che non sono garantiti spesso i dispositivi di protezione individuale, perché non sono sufficienti. Capita spesso che gli operatori, dai medici agli infermieri, che vengono a contatto con un paziente infetto o potenzialmente infetto non abbiano dispositivi adeguati, oppure sono talmente risicati che gli operatori sono costretti a indossarli per l’intero turno senza nemmeno riuscire a bere un bicchiere d’acqua perché poi dovrebbero toglierli e sostituirli. Scarseggiano mascherine, camici monouso, e in alcuni casi scarseggiano i calzari e le visiere di protezione. Ne abbiamo una a turno nei reparti in cui ci sono i pazienti ricoverati dal pronto soccorso con sospetto Covid-19 che poi viene conclamato dopo la risposta del tampone. Ci sono poi reparti dove sostano persone che erano ricoverate prima dell’emergenza e che non sono stati dimissibili e dove alcuni pazienti hanno sviluppato il contagio: per gli operatori di quei reparti non ci sono i presidi necessari per poterli assistere. E’ capitato anche a me. Questo dipende sicuramente dal fatto che l’Italia era impreparata alla diffusione della pandemia, non è un difetto della nostra azienda in particolare: il problema è che non ci sono in tutto il Paese. Nei reparti in cui sono ricoverati i pazienti positivi, secondo le indicazioni dell’Oms, per tutte le manovre che generano aerosol bisognerebbe utilizzare mascherine ffp3, e oggi tutta la Lombardia ne è sfornita. Io sono riuscito a comprare per me in una farmacia di Monza dieci mascherine ad alto potere filtrante ffp2 per 120 euro. Ma come Rsu durante un incontro con la direzione abbiamo chiesto di avere maggiore protezione e l’assunzione di nuovo personale dalle graduatorie, come previsto dal decreto”.
In un ospedale dove in quindici giorni otto reparti di degenza ordinaria sono stati trasformati per rispondere all’emergenza, si combatte come al fronte. “Nei reparti in cui vengono ricoverati i pazienti con sospetto Covid la fatica fisica è enorme: bisogna cambiarsi continuamente per passare dall’uno all’altro anche solo per fare una terapia, svestirsi e rivestirsi, per evitare di trasmettere il contagio di chi è infetto a chi non lo è”. Nei giorni scorsi l’azienda ha annunciato l’assunzione di undici medici che sono già in servizio tra Lecco e Merate, mentre per l’arrivo di 42 infermieri bisognerà ancora aspettare. “Il decreto è limitante: permette di assumere persone a tempo determinato, per l’emergenza, e i professionisti già impiegati altrove non si spostano per un contratto a termine”. Dice Cattaneo: “Noi operatori facciamo quello che possiamo, e purtroppo non è mai abbastanza. Dire che sono ottimista oggi mi è difficile. La cosa spaventosa è che questi malati muoiono soli, senza neppure un parente vicino. E’ devastante, anche per chi li assiste sino alla fine. Ma nonostante questo sia io che mia moglie siamo pronti, appena possibile, a ritornare in trincea. Ci siamo conosciuti a vent’anni, alla scuola per infermieri, abbiamo fatto tutto il nostro percorso professionale insieme, ed è una scelta che entrambi rifaremmo nonostante il momento storico che stiamo vivendo. Nel suo caso è impossibile farsi una idea di come sia avvenuto il contagio, al pronto soccorso ha visto centinaia di persone, ma verosimilmente è riconducibile al suo impegno professionale perché in queste ultime settimane non abbiamo fatto altro che muoverci tra casa e lavoro. Gli operatori sanitari fanno il tampone solo se sviluppano sintomi con febbre sopra i 37.5 gradi, mentre io ritengo – conclude - che la procedura più corretta sarebbe uno screening per tutti coloro che hanno avuto contatti con casi di sospetto Covid o casi acclarati”. (da La Stampa)